Se l’esame di Stato non diventa un esame allo stato in cui siamo

Il grave della disciplina, il voto in condotta (una fisima del ministro dell’Istruzione in auge). Poi, lo stesso, si è inventato “il capolavoro”: una sorta di “Open to meraviglia” targato Valditara. E nessuno, fra studenti e insegnanti ha capito o ha voluto capire di cosa si trattasse. Poi, finalmente, sono arrivati gli esami di Stato. E l’unico merito che riconosciamo a questo ministero è che l’esame di Stato non ha subito cambiamenti. Solo ieri sono finiti gli scritti, con tracce, fra prima e seconda prova, “populiste”, abbastanza scontate e attese.

Eppure, da anni, ci si chiede: ma hanno ancora un senso gli esami di Stato svolti così? Una ratificazione di voti a ragazzi e ragazze che, ciascuno dei docenti interni, ha interrogato decine di volte per anni. Ho posto la stessa domanda ad alcuni presidi. “Così come sono previsti li abolirei – sostiene senza mezzi termini Sara Giannetto, preside dell’IISS Tommaso Fiore di Modugno – perché rappresentano il valore legale del titolo che rispetto ai criteri del mondo del lavoro e dell’università va ripensato. Esame che viene ormai interpretato dai ragazzi in modo formalistico e privo di sostanza: arrivano con dei percorsi preparati che appiccicano, senza rielaborazione, senso critico. Potrebbe essere ripensata la formula. Si finisce per emettere un giudizio in termini di votazione, che poco ha a che fare con le competenze che vengono richieste dai profili professionali, riproducendo lo stereotipo di una preparazione fondata sulle conoscenze, fra l’altro poche e disorganizzate, che non su competenze, che mettano in grado i ragazzi di crearsi una propria cultura solida, personale e professionale”.

Anche Giovanni Mariani, preside dell’IISS Pietro Sette di Santeramo in Colle, dice: “Un rito da abolire o da re-inventare. Si continua a chiedere agli studenti di cimentarsi in uno sforzo di colloquio trasversale alle discipline ma durante la didattica resta disciplinare, ogni disciplina a sè stante. Gli esami orali sono diventati una ‘pappardella’ pre-impostata: a ogni documento che si sottopone ai candidati ‘corrisponde’ un percorso orale più o meno trasversale alle discipline. Gli studenti non sono in grado di spaziare fra contenuti scolastici ma anche extra scolastici, rielaborare, personalizzare. Il colloquio è un percorso ‘obbligato’ richiamato dal documento che gli viene sottoposto all’inizio. Una formula mnemonica e limitante per la creatività di ciascun studente. E poi ci sono gli orpelli: il PCTO, il curriculum dello studente e l’educazione civica. Momenti scollegati tra loro che frammentano ulteriormente il colloquio”.

“Tante persone in giro che non sanno valutare e che giudicano, pontificano, ostacolano, mettendo in discussione il lavoro di anni dei consigli di classe – sostiene Tina Gesmundo, preside del liceo Salvemini di Bari – I ragazzi sono giudicati da persone che spesso non hanno pazienza e voglia e nemmeno le competenze per farlo e tantomeno valutarli. La scuola é in un momento di grande crisi, la professionalità dei docenti sempre più messa in discussione. Spesso sono i docenti che dovrebbero farsi un selfie e capire se possono andare a fare i presidenti o i membri esterni. Giudicare il lavoro degli altri, invece che semplicemente ascoltare il respiro delle altre scuole”.

Pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno del 21 giugno 2024

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