Nella scuola del merito di Valditara c’é posto per il presidio psichiatrico e psicologico. E la presenza delle forze dell’ordine. Dentro i sorvegliati e i puniti.

A (ri)cominciare dai nomi, dai verbi. Dagli aggettivi. “Presidio”: contingente di truppe di stanza in un luogo; guarnigione: un presidio militare; un presidio di partigiani, riporta il De Mauro. E lo stesso alla voce del verbo “scopare”: Pulire con la scopa, spazzare: scopare il pavimento, una stanza. “Minori a rischio”, “inadempienti”, “evasori” è difficile anche da cercarli sui vocabolari, a meno che, per comprenderli tutti, si cerca il nome di chi “è privato della propria libertà personale in quanto è rinchiuso in un luogo o è tenuto continuamente sotto sorveglianza: militari o vittime di sequestri”. Ma sono questi i nomi, i verbi e le aggettivazioni con cui le cronache nere narrano, si cantano storie, trappate e rappate in mondo visione, senza che divengano oggetto di studio, approfondimento, discussione e precauzione da parte di chi invoca “presidi psicologici e psichiatrici” e la presenza delle forze dell’ordine a scuola.

Come se da anni la narrativa psicologica, pedagogica, antropologica non stessero gridando vendetta per aver medicalizzato tutto, tanto da psicologicizzare tutti. La figura dello psichiatra mancava a scuola, a seguito delle violenze subite da presidi, insegnanti e personale tutto. Così da anni. Come se su un lettino lo psicologo, con la bacchetta magica, riuscisse a risolvere quello che la famiglia, la scuola, la politica, la parrocchia, il centro sociale e una comunità educante non riesce a dare: la bellezza dello sport, dell’arte, del cinema, del teatro, della musica, del tempo libero e obeso di ozio. Quello che non possono offrire gli psicofarmaci, di cui sono ghiotte già troppe le teste di madri e padri di altrettanti figli che credono di affrontare le ansie, le paure, le prove della vita evitandole a botta di analisi, psicofarmaci e ansiolitici. Panacea per una mancanza di responsabilità educativa, a partire dalla famiglia e, senza finire, fino agli uomini e alle donne del parlamento che dovrebbero legiferare, pre-occuparsi e non sorvegliare e punire chi si educa.

In un paese che censura la visione di un film come La scuola cattolica (narra lo stupro del Circeo), come pretendere che i nostri figli e studenti non confondano il verbo “scopare” con “fare l’amore”? da chi hanno imparato, non solo il verbo, ma l’azione del ripulire, quando si fa l’amore con una ragazza o un ragazzo? Come spiegarsi, allora, le decine di casi di bambini che, anziché giocare con le macchinine e con le Barbie, stuprano e poi diventano grandi, fanno anche i biscotti per le loro fidanzate, che poi ammazzano? Come risolvere questa piaga sociale, culturale. Politica? Senz’altro non con i presidi di psicologi e psichiatri: basta, ne abbiamo tanti, troppi, in tutti i luoghi, in tutti i laghi, con tutti i loghi.

Quello di cui ci si deve occupare non è solo la sicurezza degli operatori della scuola, perché nel posto più insicuro ci sono le bambine, i bambini e gli adolescenti che nella scuola, da tanto, troppo tempo, non ascoltano altro che discorsi sui presidi, controlli (a cominciare dal disastroso e pessimo registro elettronico), inasprimento delle pene. E’ chiaro, così, che Giacomo, studente quattordicenne di Bari, affermi: “la scuola è il miglior carcere e il carcere é più meglio della scuola”.     

Pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno del 9 febbraio 2024

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