Nella scuola del dissenso la verità e l’urlo vincono su tutto. Anche sui manganelli

La sala professori (Germania, 2023)
Regia: Ilker Çatak
Cast: Leonie Benesch, Leonard Stettnisch, Eva Löbau, Michael Klammer, Anne-Kathrin Gummich, Kathrin Wehlisch, Sarah Bauerett, Rafael Stachowiak, Uygar Tamer
Produzione: if… Productions
Distribuzione: Lucky Red
Genere: drammatico
Durata: 98’

In fondo, essere insegnanti, a cosa è simile, se non al lavoro di un direttore o una direttrice d’orchestra. Nonostante le diversità di qualsiasi forma e genere, tutto, in una classe, si armonizza. E non è un caso se il bellissimo film di Ilker Çatak si apre con un’insegnante che dà il la, la nota che serve ad armonizzare l’orchestra. Sentiamo tutti inizialmente dei cluster, prima che la storia cominci. Perché l’intonazione sia giusta, sebbene sempre in qualche modo imperfetta e, quindi, perfettibile.

E se questo è l’incipit, tutto il resto del film sarà determinante rispetto all’urlo. Il più forte possibile, da parte dell’insegnante e dei suoi studenti e studentesse, per liberarsi dall’oppressione di chi sorveglia e di chi è sorvegliato. Nel frattempo, la macchina da presa, che sta sempre addosso all’insegnante, finisce sempre più per stringersi sul suo volto. Quello del potere che non ha mai tregua, non è mai troppo sazio.

Il cinema tedesco non è nuovo nel racconto delle dinamiche sociali, utilizzando il pretesto del gruppo. E in modo particolare di quello degli adolescenti. Per emblema, la perfezione dell’irruenza, della rivoluzione. Del cambiamento. Trattandosi di un film sul potere, La sala professori (titolo peggiore non si poteva trovare), richiama altri film, da La classe di Cantet a Class enemy di Bicek, passando da L’onda di Gansel. La differenza del film di Çatak la fa la varietà di temi su cui il film si avventura, avendo il pretesto della storia di Carla Nowak, l’insegnante di seconda media, che deve scoprire il responsabile di una serie di furti avvenuti all’interno della scuola. E’ in questo luogo, ma davvero a esclusione della sala professori, che il film dipana una serie di generi e li raduna tutti, poi, in un thriller claustrofobico. A innalzare i muri, i confini e le sbarre oltre cui sarà impossibile guardare, saranno gli stessi sguardi pregiudiziosi di tutti. Questi costituiranno i muraglioni di un sistema in cui si soffocherà, sentendosi prede e predatori, accusatori e accusati. Sorvegliati e puniti. Tutti complici.

E non si tratta solo di una complicità che caratterizza la maggior parte nel discrimine, la riflessione si fa anche intorno alla verità, quella che rende liberi gli esseri umani, consapevoli che non ne esiste una uguale o simile per tutti.

E’ lo sguardo indagatore di chi sorveglia a vincere, anche nei posti immaginabili, dove ci si può avvertire soli. Siamo tutti in un piccolo o grande fratello dove lo sguardo dell’altro determina i propri comportamenti, privati e pubblici.

Nell’ottima scrittura del film (sceneggiata dal regista insieme a Johannes Duncker), il tema del potere è centrale. Le conseguenze sono tante, troppe, che c’è il rischio di perdersi, ma alla fine della visione, tutte si ricompongono, come in un cubo di Rubik: ogni conseguenza ha un suo centro, caratterizzata dal suo colore e dalla sua rettitudine. Sapendo che ogni intuizione prevede un’induzione.

Mediante una fotografia (Judith Kaufmann) che rende le immagini come si trattasse di un documentario, la verosimiglianza del film lo rende un lavoro importante, in un tempo e in uno spazio in cui il merito, il potere, la prestazione, l’ordine, la sorveglianza e la punizione sono regola. Legge dello Stato, anche rispetto allo stato in cui siamo. Si ha tutti la tentazione di salire su piedistalli, sapendo di trovarsi sempre di fronte avversari disposti a gettarti fuori dal gruppo, lasciarti annegare in mare, evitarti. Oscar è un concentrato di essenza umana, in tal senso. Rivendica presenza, in un mondo che insegna l’assenza e al massimo l’obbedienza cieca. Quella che non prevede il dissenso, la ribellione. L’urlo. Anche a costo dei manganelli…

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