Siamo esseri che traggono vantaggio l’uno dall’altro. La simbiosi, secondo Mario Vitale

L'afide e la formica. La recensione del film

L’afide e la formica (Italia, 2021)
Regia: Mario Vitale
Cast: Giuseppe Fiorello, Cristina Parku, Valentina Lodovini, Alessio Praticò, Nadia Kibout
Produzione: Indaco Film, Rai Cinema, con il contributo del Ministero della Cultura, con il sostegno di Fondazione Calabria Film Commission
Distribuzione: Zenit Distribution
Genere: drammatico
Durata: 100

Correre, non sempre significa scappare. Si può scappare, dalle persone, dalle situazioni, dalle cose… restandoci, per imparare a cambiarsi e cambiare corsa.

Era tanto atteso il primo lungometraggio di Mario Vitale, bravissimo regista calabrese, distintosi con videoclip e attraverso un corto (Prenditi cura di me 2017), in particolar modo, che ha fatto incetta di premi e di consensi, fra pubblico e critica. Il suo primo lungo, dall’emblematico titolo L’afide e la formica, pur ambientato nella terra natia di Vitale, narra di una Calabria che appare in tutta la sua anonimia, perché sottende il desiderio di una universalità di quel messaggio forte, che il film vuole diffondere.

Finalmente, non più e soltanto la ‘ndrangheta come tema principale per un film girato in Calabria, ma la possibilità di cambiare, insieme all’esigenza di riscattarsi da una colpa che è scritta nelle carni e nei luoghi che la gente calabrese abita. L’afide e la formica è un film scritto bene, a sei mani, insieme al regista, Saverio Tavano, Francesco Governa e Josella Porto. E’ una storia corale, ma perché di una comunità che vuole cambiare. E per cambiare, si mette in cammino, senza evitare i momenti di stanca. Insieme, però, è possibile (ri)costruire la solidarietà, per calzarla e saper resistere nella corsa.

Il meraviglioso personaggio del professore di scienze motorie, Michele Scimone, che vuole vendicare la memoria del figlio Roberto, vittima della malavita, diventa il pretesto di ricostruzione di un vissuto, compreso quello amoroso del prof, con la sua stessa Anna. Ma Michele troverà in un’alunna, Fatima, di origini marocchine e italiana di nascita, la sua strada, quella utile per scappare, e guardare con occhi diversi il mondo, quello vicino, senza occultarsi la vista di ciò che all’approdo ciascuno deve aspettarsi.

C’è molta eleganza nella costruzione del tutto, da parte del regista. Dalla bellissima fotografia di Corrado Serri, onirica e con una predilezione per i profili, perché tutto possa essere immaginato intero, alle chiazze sui muri, che assurgono a fantasmi e forme che danno vite a lune, che però non argentano. Anche la colonna sonora (Francesco Strangis), che combina elettronica e tappeti sonori, non lascia spazio, spesso, alla fine di sequenze, che continuano a risuonare nella pancia e nel cuore dello spettatore.

Nella storia sono le vite delle persone, specie quelle delle più giovani generazioni, che come uova, cocci di bottiglia, si infrangono e si cerca di ripescarle, nel mare in cui naufragano. Anche senza l’uso dell’esca. Purché vivano. Perché Mario Vitale ha sempre narrato, in qualche modo, la cura. E in tal senso, anche i padri, quando si accingono ad attraversarle, senza evitamento, le stanze dei figli, fanno l’esperienza della fuga ma con ritorno, attingendo vantaggio dall’altro, che in qualche modo, il tempo e lo spazio ridonano.

Tutti, madri e padri, compresi i figli, quelli che restano e quelli che devono andare, vivono la simbiosi di ciò che resta. Al modo del trofeo di un paio di scarpe, che non cadono, ma restano lì, in alto, a documentare il desiderio di tutti, di andare, provare a conoscerle quelle terre interiori, avventurandosi per viaggi che quasi sempre, specie nel caso dei Sud del mondo, non prevedono ritorni. Solo il cammino come unica meta.

Mario Vitale, anche se non lo si conosce, è capace di uno sguardo ingenuo e umile, perché possiede un punto di vista privilegiato, quello di chi è diventato già troppo grande (anche in una regione come la sua), pur nella consapevolezza di una terra, un tempo e uno spazio, entrambi contaminati. Infatti, la sua prima opera di finzione è lontana dai cliché, non ha insegnamenti da offrire, solo punti di domanda.

Ottimo il contributo di Beppe Fiorello, che riesce a restituire uno spessore notevole all’uomo che vive un tormento atroce, insieme alla bravura naturale della giovanissima Cristina Parku, interprete acerba, per la giovane Fatima.

Quando si raggiunge la consapevolezza della propria ultima corsa, verso ciò da cui si scappa, è necessario, come la protagonista del film, dare uno sguardo panoramico, verso quella stessa terra, che nel frattempo è diventata il mare che ti riporta, dove solo le risacche sanno.

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